Il senso delle periferie

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Negli ultimi due anni, prima con la campagna “basta cemento” e ora con le attività dello Sportello Diritti, un gruppo di attivisti dello Spazio Sociale La Boje! ha provato a strutturare un ragionamento politico e un lavoro culturale nelle zone meno centrali di Mantova. Perché?

Da una sponda all’altra dell’Atlantico, da Ferguson a Tor Sapienza o i quartieri di Milano, bersaglio quotidiano di plotoni di celere pronti a sgomberare le case occupate, i fatti degli ultime settimane ci raccontano di differenti relazioni di potere presenti ovunque con differenti sfumature, mostrandoci strade per sovvertirle.
La periferia è definita come quell’area collegata ad un centro da relazioni di scambio sfavorevoli a questa.
Come in tanti altri settori della società, anche la struttura delle città è mutata inasprendo le disuguaglianze sociali, a causa delle ricette dell’austerità economica e della privatizzazione dei servizi pubblici già in atto da un decennio.
Viviamo nella società dell’immagine, quindi dobbiamo essere attenti nel comprendere a cosa ci riferiamo: la periferia è più sfumata, ma allo stesso tempo più multidimensionale ed estesa che in passato. Traducendo la constatazione economica della “concentrazione della ricchezza in sempre meno mani”, in termini geografici potremmo dire che ci sono sempre meno centri sempre più ricchi e un maggior numero di periferie sempre più povere.
Non dobbiamo immaginarci solamente i ghetti formati da blocchi di cemento in cui è concentrata la popolazione più povera, ma anche il paese di campagna in cui non arriva più l’autobus, perché hanno tagliato i trasporti, e la frazione di casette a schiera nuove che si allaga appena piove perché viene ignorato l’impatto ambientale.
Periferico diventa ogni luogo in cui non ci siano le condizioni per l’accumulazione del capitale o dove si possa scaricare un taglio dei costi, per esempio costruendo su terreni inquinati o abbandonando materiali tossici in specifiche zone del territorio. Quelle dove più difficilmente la popolazione si organizzerà per liberarsi di quei rifiuti.
Nella direzione della mercerizzazione della città ci sono chiari segnali, anche numerici, come la definitiva estinzione della legge 167, che negli anni ’50 provò a definire i piani urbanistici prevedendo una certa quantità di alloggi popolari. Il governo Renzi procederà infatti alla vendita di 900mila case popolari in piena sintonia con il “piano casa”, che criminalizzò le occupazioni, e con la svendita del patrimonio edilizio pubblico restaurato con i soldi (sempre pubblici) della cassa depositi e prestiti.
Sarebbe stato carino leggere in qualche articolo relativo alla stigmatizzazione degli abusivi, che ha anticipato la “sagra dello sgombero” nelle ultime settimane, che l’Italia tra i paesi ricchi è quello con la minore edilizia popolare pubblica, insieme alla Spagna, e che solo il 5,3% delle famiglie, secondo i dati Eurostat (2011) accede a sussidi di sostegno abitativo.
Nulla è perduto, poiché le periferie hanno dimostrato di “saper vincere” alcune lotte relative alla richiesta di una più equa distribuzione delle risorse nello spazio locale, e anche quando hanno perso hanno prodotto una soggettività nel riconoscere un’identità comune di chi è privato di alcuni servizi, diritti etc. .
Le lotte nelle città brasiliane e in Turchia del 2013 partivano proprio con la pretesa che fossero le classi popolari a determinare una nuova struttura dello spazio urbano, delle relazioni tra patrimonio pubblico e proprietà privata, e quindi, di come investire la ricchezza prodotta socialmente.
Le periferie di Milano e Roma però ci mostrano due volti di come possono evolvere queste situazioni e delle relazioni che instaurano con il potere statale.
I blocchi degli sfratti, in molti casi spontanei, nella periferia milanese parlano un’altra lingua rispetto all’assalto organizzato a Tor Sapienza al centro di accoglienza per i rifugiati. In più stabiliscono delle geometrie totalmente diverse nel relazionarsi con l’ordine costituito.
Senza negare le specificità di ciascun contesto periferico, la composizione delle due periferie sembra simile: alti tassi di disoccupazione (con tutto ciò che ne consegue), una buona percentuale di “abusivi”, mancanza di servizi sociali, ritardi decennali nei lavori di manutenzione di edifici ed infrastrutture.
Lo stato, nella sua accezione fintamente neutrale (da “trenta gloriosi”), quale forza redistributrice e garante di alcuni diritti esiste sempre di meno, sulle periferie scarica il tentativo di fuga da ogni responsabilità sociale e in queste si mostra solo attraverso la faccia della repressione, rigorosamente in divisa blu.
Gli stessi processi migratori, che si manifestano in modo regolare da un decennio, sono prevedibili e gli eventuali aumenti nel flusso di persone sono anticipati da conflitti bellici. Ascoltando i media sembrerebbe che ci siano due approcci nel rapportarsi a questi, il buonismo e il realismo. Specifichiamo subito che questa è una distorsione della realtà, gli approcci politici (o cornici di pensiero) che vanno per la maggiore sono due, il secondo in qualche modo conseguente del primo, ma i movimenti potrebbero incominciare a praticarne un terzo.
Da un lato abbiamo un razzismo istituzionale (per alcuni buonista) sapientemente ricamato dai ritardi e dalle contraddizioni legislative dello stato italiano e dal metodo conservatore dell’Unione Europea, il cui obiettivo è quello di sfruttare il più possibile la forza lavoro migrante, riducendo al minimo una distribuzione dei diritti nei loro confronti.
Proprio in quest’anno in cui quasi la totalità dei migranti sono costretti a spostarsi per questioni repressive e politiche (e non economiche come negli anni precedenti), la UE sta negoziando con alcuni regimi africani dei campi profughi da allestire in Africa.
L’approccio conseguente sono le ondaSte di razzismo che scoppiano in una popolazione sempre meno tutelata dall’instabilità del mercato del lavoro e privata di un sistema di diritti sociali. Questa seconda lettura delle politiche sociali, molto diffusa nel pour parler popolare bianco, la potremmo riassumere così “non ci sono i soldi per noi italiani, non devono arrivare prima agli immigrati”. È il portato della mancanza di politiche pubbliche strutturali sia per quanto riguarda le emergenze umanitarie sia per il mancato rinnovamento (ed estensione) del sistema di welfare.
La riduzione progressiva di spesa sociale e l’affidamento dei servizi sociali ad enti privati (cooperative o grossi poli associativi come Arci o Caritas) che devono concorrere in bandi temporanei e scarsamente finanziati, producendo così un precariato sociale diffuso, è una mancanza, non una dimenticanza.
L’obiettivo del potere infatti è chiaro: mantenere delle separazioni in un welfare di tipo categoriale (e non universalistico) come quello italiano, evitare in ogni modo che si creino delle saldature nelle lotte sul lavoro tra proletariato bianco, giallo, rosso e nero.
Senza estremizzare eccessivamente le similitudini con la situazione statunitense, anche a Ferguson, le maggiori preoccupazioni per i vertici politici dello stato del Missouri sono state quelle relative ad una possibile connessione tra i lavoratori dei trasporti o le lotte per un innalzamento del salario nei fast food e le esplosioni di rabbia per la violenza della polizia.
Le color lines, che in America settentrionale hanno sempre rappresentato un sistema di divisione della classe operaia e delle richieste dei salariati, possono essere un modello per i governanti europei per evitare forme collettive di rivendicazione dal basso verso l’alto di strutture universalistiche di redistribuzione comuni in tutta Europa.
Le spinte razziste come quelle di Tor Sapienza, su cui sta investendo l’estrema destra e quella radicale italiana, conscia di poter inserirsi così negli strati popolari, è come se chiedessero di stare al di qua di una determinata linea di colore.
Il potere statunitense nel corso della storia ha più volte approfittato delle richieste di un determinato gruppo etnico o sociale nell’essere considerato un gradino sopra ad un altro nella gerarchia sociale.
Era il miglior sistema per conservare l’ordine costituito, creando nuove periferie ghettizzanti e indirizzando le peggiori condizioni di vita e lavoro agli ultimi arrivati, hanno saputo mantenere delle forte divisioni nella classe operaia che difficilmente è riuscita ad ottenere unità sociale e ancor di più politica.
É come se a Tor Sapienza chiedessero per i rifugiati una periferia più periferia della loro, ma ci chiediamo se si possano risolvere i problemi delle periferie con la costruzione di nuove periferie, come i costruttori stanno operando già da qualche anno.
All’aria di vecchio, di già visto e già sentito (e non era un bel vedere), delle campagne razziste della destra davanti i campi nomadi o contro gli studenti migranti nelle scuole, si contrappone lo spirito di solidarietà dei quartieri milanesi.
Non è una contrapposizione Roma-Milano sia ben chiaro, quelle situazioni sono replicabili in diversi contesti periferici, ma una distinzione netta tra i rigurgiti reazionari della lotta all’immigrato e le sfide verso quale tipo di futuro poste dagli occupanti di casa milanesi.
Questi ultimi sono duramente attaccati da settimane dalla polizia, dagli organi di stampa, dal governo della città e della regione, perché hanno saputo praticare tentativi di (auto)gestione politico sociale alternativi a quella proposta dalla politica istituzionale.
La foga della giunta arancione di Pisapia nello sgomberare lo sgomberabile, dimostra l’incapacità dei riformisti nel dare soluzioni pratiche nella difesa dei beni e dei diritti collettivi dalla pressione della proprietà privata.
La solidarietà tra sfrattati di San Siro, Corvetto, Giambellino, le strategie di mutuo soccorso conflittuale alternative alla competizione del “si salvi chi può”, l’utilizzo intelligente dell’invenduto e il recupero sociale delle speculazioni edilizie e finanziarie attraverso la pratica dell’esproprio, ci parlano di una società futura, più giusta ed ugualitaria il cui centro possono essere proprio le periferie.

Fonti

http://www.eddyburg.it/2014/11/case-popolari-addio-arriva-il-decreto.html

http://www.communianet.org/rivolta-globale/ferguson-un-nuovo-soggetto-sociale

http://www.infoaut.org/index.php/blog/notes/item/13354-la-struttura-della-citt%C3%A0-%C3%A8-il-prodotto-della-dinamica-capitalista