I due volti di Obama

“Le scene festose di liberazione che Dick Cheney e George Bush avevano immaginato per l’Iraq hanno invece avuto luogo nelle città degli Stati Unit in seguito alla vittoria di Obama”. Questa descrizione fatta dal New York Times rende piuttosto bene la portata della vittoria democratica alle presidenziali Usa e il cambiamento di scenario che l’entrata alla Casa Bianca da parte di un presidente afroamericano comporta. Non c’è dubbio che il sistema statunitense dell’alternanza tra partiti simili consiglia di non cedere alle illusioni né di farsi trasportare dalle suggestioni o da facili entusiasmi. Ma non è possibile sottovalutare la portata simbolica di quanto avvenuto la sera del 4 novembre negli States e quindi non seguire con occhi nuovi e curiosi quanto accadrà nel prossimo periodo nella società statunitense che ha dimostrato segni di mobilitazione e sintomi di vitalità.

Questi segnali stanno innanzitutto nella distribuzione del voto e nel comportamento di segmenti importanti della società Usa. Se i più riottosi a dare il proprio sostegno a Obama sono stati gli uomini (51%) e gli ultra sessantacinquenni (46%) i più entusiasti, oltre agli afroamericani (96%) sono state le altre comunità non bianche come i Latinos (65%) mentre i bianchi hanno votato in maggioranza per McCain. Ma il successo più importante è targato al futuro con i giovani nella fascia 18-29 anni che hanno votato al 66% per Obama, quelli nella fascia 30-44 che lo hanno votato al 52% sorpassando i Repubblicani e le donne che hanno scelto il neo-presidente con quasi il 60% dei consensi. Le cose sono state positive anche per quanto riguarda il censo: i redditi medio-bassi, sotto i 50mila dollari, hanno votato Obama al 60% circa mentre nei redditi alti e medio-alti è stata la parità tra i due candidati. Obama ha sfatato anche la leggenda, veicolata soprattutto da Hillary Clinton durante le primarie democratiche, che lo vedeva distante dal voto operaio bianco: la sua vittoria a Macomb County, nel Michigan, è vista invece da molti come la prova che il messaggio ha sfondato anche tra i “collar blue” americani.

Questa situazione ha prodotto una situazione di “Grandi Aspettative” per citare la copertina dell’Economist che ha commentato il risultato. Un recente sondaggio di Usa Today, uno dei principali quotidiani statunitensi, evidenziava come l’80% degli interpellati si aspetta una lotta efficace contro la povertà, il 76% pensa che all’estero gli Usa saranno ora guardati con più rispetto, mentre il 66% pensa che la disoccupazione sarà la priorità del nuovo governo. Grandi aspettative, dunque. Ed è questo il dato simbolico, e allo stesso tempo molto concreto, che emerge dalla vittoria di Obama.

Quanto avvenuto nella notte del 4 novembre esprime di fatto una realtà duplice: c’è stato un voto che viene “dal basso” e un voto che viene “dall’alto”.

Da un lato c’è stato l’evento storico che tutti abbiamo visto. Per milioni di afroamericani la presidenza Obama era semplicemente inimmaginabile non solo ai tempi di Martin Luther King ma semplicemente qualche anno fa quando Bill Clinton diceva al governatore di New York, l’italoamericano Mario Cuomo, che “gli Usa non sono pronti per un presidente il cui cognome finisca per ‘o’ o per ‘i'”. Ovviamente il razzismo Usa non finisce nel 2008, così come non finisce la discriminazione sociale di stampo razziale (la metà dei detenuti è nera, la disoccupazione colpisce soprattutto la popolazione afroamericana e così via). Ma per molti vedere che quella Casa Bianca, costruita dagli schiavi, è oggi la Casa di una famiglia afroamericana costituisce una sorta di speranza e di promessa di cambiamento. Questo dato simbolico è riuscito a trascinare altri soggetti e altre forze, i giovani o le donne come abbiamo visto. E rappresenta un elemento costituente della vittoria democratica che in qualche modo andrà gestito. Dentro questa aspettativa generale c’è ovviamente il gran rifiuto opposto agli otto anni di George Bush e alla sua disastrosa prova di governo. La guerra in Iraq e in Afghanistan, la corruzione e la gestione disinvolta del potere, la vera e propria bancarotta esplosa sotto gli occhi dell’attuale Amministrazione costituiscono gli elementi chiave per capire la dinamica del voto di novembre – che ha registrato anche una sonante vittoria sia al Congresso che al Senato – e quindi la dinamica “dal basso”.

Ma occorre capire anche la dinamica “dall’alto” che ruota attorno al giudizio espresso dalle elites dominanti nei confronti proprio dell’Amministrazione uscente. Bush ha ridotto ai minimi termini la credibilità Usa nel mondo, ha sostanzialmente perso la guerra sia in Iraq che in Afghanistan; non ha saputo gestire in nessun modo la crisi economica provvedendo a un piano di salvataggio che salva gli “amici” di Wall Street ma che sta ignorando l’economia industriale a partire da quella automobilistica. Insomma, una presidenza da dimenticare. E quale opportunità migliore del “Change” offerto da Obama per far dimenticare il passato e ricostituire una credibilità interna ed esterna? L’establishment si è schierato decisamente con Obama, basta vedere gli aiuti finanziari offerti dalle Corporations, lo schieramento del mondo culturale e dello spettacolo. Ecco dunque che la filosofia del “cambiamento” ha due interlocutori differenti: da una parte le “grandi aspettative” di una parte dinamica e attiva della popolazione Usa e dall’altra le analoghe aspettative del sistema-paese che ha bisogno di una guida forte per uscire dalla crisi e recuperare centralità nel mondo. Ovviamente non è difficile prevedere che sarà quest’ultima a prevalere. Obama, va ricordato, ha dato il suo personale via libera al piano Paulson da 700 miliardi di dollari che oggi gli stessi democratici vorrebbero modificare spostandolo di più in direzione dell’economia reale. Obama è colui che ha dichiarato di voler vincere la guerra in Afghanistan e di voler ritirare le truppe dall’Iraq per poter rafforzare la presente nell’est asiatico. Ancora Obama, è colui che sta riempiendo il proprio staff di eredi della vecchia Amministrazione Clinton fino a ipotizzare la carica di Segretario di Stato per la stessa alleata-rivale Hillary Rodham, che aveva votato a favore della guerra in Iraq. Sul piano internazionale Obama potrebbe essere il presidente Usa che rilancia, sul serio e in forma compiuta, uno schema multilaterale puntando a condividere la crisi con i partners internazionali (anche se c’è una forte spinta al protezionismo che proviene dalle stesse fila sindacali preoccupate di salvaguardare i posti di lavoro Usa) senza modificare la sostanza della politica nordamericana. Anzi, da questo punto di vista è il presidente che può praticare una manovra avvolgente, smussando i conflitti ma non per questo rendendoli meno cruenti. Due banchi di prova si imporranno da subito: il conflitto israelo-palestinese e l’America latina. Oltre, ovviamente, alle modalità con cui saranno gestite le guerre principali dell’Iraq e dell’Afghanistan che vedono gran parte del mondo militare propenso a una tregua e a una gestione concordata con i “ribelli”.

Quello che però sarà interessante osservare è la dinamica che si mette in moto e come la vittoria di Obama si riverserà nella società statunitense. Se si guardano i commenti di quel poco che c’è della sinistra Usa – gli ambienti intellettuali di The Nation, organizzazioni come l’International Socialist Organisation o la corrente Solidarity – non si coglie nessuna illusione ma si può riscontrare anche una forte curiosità e attesa per l’eventuale risveglio sociale che la sconfitta di Bush operata in modo simbolicamente così forte potrà produrre. Si guardi ad esempio alla California e alla bocciatura dei matrimoni tra lo stesso sesso operata dal referendum. Quattro anni fa la sconfitta avrebbe prodotto una rassegnazione e un ripiegamento mentre oggi, di fronte alla vittoria di Obama, il movimento gay e lesbico ha reagito prontamente addirittura con una giornata nazionale il 15 novembre e con la volontà di non indietreggiare rispetto alle proprie conquiste. Non è un caso se dai vertici del Partito Democratico si invita alla pazienza e si ricorda che non si potranno avere cambiamenti fondamentali.

La differenza se ci sarà, la farà la società statunitense e la sua determinazione a esigere una risposta alle proprie aspettative. Se questa determinazione terrà banco e darà vita a un nuovo protagonismo politico in grado di esigere risposte ma anche di restare indipendente dall’establishment e dal Partito Democratico allora la vittoria di Obama avrà aperto una fessura reale nella società dalla quale potranno esprimersi soggettività nuove. Altrimenti, sarà stata un avvenimento storico innegabile ma che rischia di generare l’ennesima, cocente delusione.

di Salvatore Cannavò