Merry Crisis from “La Boje!”: lotte e repressione attraverso la penisola

presepe
Giuseppe e Maria sono una coppia di fatto, aspettano un bimbo grazie alla fecondazione artificiale e si sono recati a Betlemme in Giudea per cercare migliori condizioni di vita; l’approccio con la società non è facile: l’impero romano sta effettuando un censimento e né Giuseppe né Maria sono in possesso di un regolare permesso di soggiorno. La condizione umile della coppia e l’indifferenza/astio dei cittadini, gonfiata dai tg di Giudea1, non permettono a lei al suo compagno di trovare un tetto sicuro: la giovane madre è costretta a partorire in una stalla suscitando la solidarietà dei poveri pastori del luogo. Di lì a poco le ronde padane, informate dell’accaduto, portano via la coppia e il loro neonato scortandoli fino alla più vicina gazzella dei carabinieri in nome della sicurezza dei cittadini.

Il natale, festa che mischia ipocrisia e consumismo sfrenato, rito secolarizzato da migliaia di pericolose lucine intermittenti made in China, fatica , in tempi di crisi economica, a celare sotto pubblicità di ipermercati e rituali film su babbo natale, una realtà sociale sempre più dura e cupa.

Questo natale molte persone l’ hanno passato su un tetto di una fabbrica che sta per chiudere, a dormire dentro uno spazio occupato in procinto di essere sgomberato, o peggio in compagnia del freddo della strada o della solitudine di una galera italiana o danese che fosse.

Pomigliano d’Arco e Termini Imerese

Da Il Manifesto

Una vigilia in catene per i precari della Fiat fiat_uscitaoperaipomigliano
Vigilia e cenone di lotta per gli operai Fiat di Pomigliano d’Arco e di Termini Imerese, dopo il «pacco» presentato da Marchionne due giorni fa. Restano sul tetto del loro istituto anche i ricercatori precari dell’Ispra. Mentre il tribunale di Roma mette i sigilli alla sede di Agile/Eutelia. E alla Yamaha l’azienda fa marcia indietro e concede la cassa integrazione
Rabbia, si dice spesso così per chi perde il lavoro, e con le catene strette intorno alle porte del comune di Pomigliano i precari della Fiat la esprimono appieno. Poca voglia di parlare e molte imprecazioni per chiunque, per i vertici dell’azienda «che sono tutti camorristi», per la politica «che se ne frega», per lo stato complice «di mandarci in mezzo alla strada dopo capodanno». Salvatore ha i polsi fasciati dalle catene, serra la bocca poi spiccica qualche frase: «Ho 35 anni dove lo trovo un altro lavoro, a Roma di noi nemmeno hanno parlato, non esistiamo, restiamo qui per natale, che possiamo fare». Due figli piccoli, famiglia monoreddito, dei 35 che dovranno andare a casa per il 2010 questa è la situazione generale. La vigilia passerà sul tetto del comune, le famiglie verranno qui, forse ci sarà la solidarietà degli abitanti, ma alla domanda sul cenone, sui regali per i più piccoli le tute blu mandano tutti a quel paese.
Non rassicura che il governatore Bassolino abbia garantito un sostegno al reddito per l’anno prossimo, la Fiat infatti dovrebbe inserirli nella formazione e per il momento non ci sono risposte. Il presidente Napolitano martedì li ha ricevuti, ma anche in questo caso c’è solo la speranza che qualcosa si muova. «Abbiamo buttato 4 anni della nostra vita – ci spiega un lavoratore – non un giorno di malattia per paura di essere scaricati, e cosa abbiamo ottenuto in cambio?». All’Alfa nel frattempo si lavora per recuperare sullo sciopero delle scorse settimane, per i precari è un altro smacco. «Ci hanno preso dalla Dhl automotive, c’era un accordo, la Fiat avrebbe dovuto integrarci a tempo indeterminato, invece ha preso gli incentivi e ora finiamo in strada», a parlare uno dei tanti che protestano. Ognuno di loro capisce che il rischio è di essere stritolati in un piano di ristrutturazione, dove anche sugli operai con contratto pende un’ipoteca, da Termini Imerese a Pratola Serra, passando per la stessa Pomigliano. «Ci hanno fatto capire che la Panda si produrrà nel nostro stabilimento – continua Salvatore – ma anche che dei 5100 dipendenti ne resterà al massimo la metà». I sindacati da parte loro non accettato il piano Marchionne e sebbene il sottosegretario Enrico Letta abbia recepito la proposta di Bassolino per i precari e espresso l’intenzione di mediare con i vertici aziendali, le organizzazioni si rendono conto che a fare acqua è tutta la filiera.
«La dimensione dei volumi produttivi per l’intero paese è insufficiente – conferma Maurizio Mascoli, segretario Fiom Campania – la Fiat vuole ritornare a una situazione pre crisi, con la produzione di 900 mila vetture, un piano inaccettabile visto che presuppone la chiusura di Termini Imerese». Ma anche per Pomigliano, secondo la Fiom, la progettualità è a rischio. Reimportare dalla Polonia la produzione della nuova Panda non è un’impresa semplice e non garantisce il futuro della fabbrica. Sarebbero, infatti, 270 mila le automobili da sfornare in totale, ma prive di ecoincentivi nel nostro paese e con un ridimensionamento in tutta Europa, i numeri potrebbero calare. Senza contare che sotto il Vesuvio si direbbe definitivamente addio all’Alfa, che volerebbe in America sulle linee Chrysler, e a rimetterci ci sarebbero anche gli operai di Pratola Serra che attualmente producono i motori per il marchio storico. «Non sarà semplice riqualificare lo stabilimento, sia per la formazione dei lavoratori, sia per i costi dell’operazione – conclude Mascoli – perciò Marchionne ha chiesto investimenti pubblici».
Per chi resta sul tetto è una gola profonda, i ragazzi incatenati sanno di essere i primi a finirci dentro, 35 fuori tra una settimana, altri 40 entro marzo. «Vogliamo solo lavorare – ci urla un lavoratore seduto sulle scale del municipio – la politica si deve muovere, la vigilia resteremo qui, quelli che hanno rovinato la fabbrica a mangiare felici. Tanti auguri».

Fabbrica Fiat e indotto chiusi. Per sciopero   termini_imerese01g-4a17d065afe20
Sono arrivati alle 13 alla stazione ferroviaria di Termini Imerese, pagando il loro tributo natalizio anche alle Ferrovie dello Stato: un ritardo di alcune ore come pretendono le patrie rotaie. Gli operai della Fiat tornavano da Roma, dove si erano recati ieri per l’incontro tra l’azienda e il governo, nel quale l’amministratore delegato Sergio Marchionne ha confermato che per la fabbrica siciliana non ci sono speranze: si chiude, tutti a casa tra due natali. Addio auto, addio lavoro.
La zona industriale di Termini Imerese ha fatto oggi le prove generali della desertificazione: tutti gli stabilimenti sono rimasti chiusi, quello della Fiat e quelli dell’indotto. Lo sciopero ha avuto un’adesione totale. Per 2200 operai è cominciato il conto alla rovescia verso la disoccupazione. Nel 2012 lo stabilimento dovrebbe essere riconvertito: intanto chiudiamo, è il piano del manager, poi si vedrà.
«Si compra la Bertone e si chiude qui – dice Roberto Mastrosimone, segretario provinciale della Fiom -. Ma se Marchionne ha deciso di andare via, prima consegni quello che non è suo: lo stabilimento, per esempio, edificato negli anni Settanta con i soldi della Regione, tanto che si chiamava Sicilifiat. Restituisca quello che non è suo e lasci che si aprano le trattative con altri soggetti».
Intanto, rispuntano voci di un interessamento da parte del gruppo cinese Chery, mentre la molisana Dr, chiamata in causa probabilmente perché ha un’intesa con Chery per assemblare e vendere in Italia auto del marchio cinese, smentisce di essere della partita. Termini Imerese ha una capacità produttiva di mille auto al giorno. Fino al 2000 ne produceva 800 e non era del tutto a regime.
Ieri mattina gli operai, giunti con oltre due ore di ritardo a Messina, hanno organizzato una protesta nella stazione dello Stretto, bloccando i binari per mezz’ora. Hanno parlato con la gente, hanno cercato di spiegare ai viaggiatori che la chiusura della Fiat non riguarda solo chi ci lavora, ma che il piano generale del Paese comprende l’abbandono del Sud, quel Sud nutrito a patacche come il ponte di Messina, i cui lavori sono stati fantasiosamente inaugurati ieri sulla sponda calabra, mentre gli operai attendevano tra i binari di riprendere l’interminabile viaggio verso Termini Imerese, lungo una tratta che sembra un sentiero per carovane. Arrivati a destinazione, le tute blu hanno incontrato altri viaggiatori. Qualcuno ha messo giù i bagagli e ha ascoltato. Ne è nata un’estemporanea «Conversazione in Sicilia», prima che gli operai facessero un salto allo stabilimento per incontrare i colleghi che non erano stati a Roma. Davanti ai cancelli, nella giornata che prelude alle feste degli altri, si è radunata una piccola folla. La domanda ricorrente è: che fare? Da lunedì comincia la cassa integrazione fino al 7 gennaio. Dopo la ripresa ci sarà un’altra sosta dal 25 gennaio e per una settimana.
La politica tace, tutt’al più sussurra: il destrorso presidente della Regione Raffaele Lombardo, fresco d’idillio con il Pd siciliano, ripete che le risorse ci sono. Il Pd, fresco d’idillio col presidente della Regione, non ha uno straccio d’idea, il proprio concetto di politica industriale è racchiuso in qualche comunicato stampa, che giorno dopo giorno viene stancamente riciclato, nel quale si chiede al governo di prendere in considerazione un’ipotesi abbondantemente scaduta: legare gli eco-incentivi al salvataggio di Termini Imerese.
A gennaio, quando il Lingotto avrà incassato gli incentivi, il tavolo tra governo e azienda avrà una seconda puntata. Claudio Scajola, titolare dello Sviluppo economico, è convinto che una soluzione si troverà. Vuoi vedere, dicono gli operai, che il governo nucleare ci proporrà una bella centrale?

I precari dell’ ISPRA                                       ispra-protesta-tetto

Da Il Manifesto

I precari sul tetto «Salvate la ricerca»
Vigilia di lotta anche per i ricercatori ambientali
Dal tetto di via Casalotti si vede nitidamente lo stato in cui versa la ricerca italiana. Ci sono saliti apposta su quel tetto, un mese esatto fa, i ricercatori dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), «perchè tutti sappiano che cosa si sta distruggendo». Si sono inventati di tutto, Marco, Michela, Andeka, Emma, Ivan e tutti gli altri che da un mese hanno fermato le loro vite, dottorati e matrimoni, contro «il terrore di essere invisibili». Hanno stampato magliette, realizzato un video, scritto lettere e stampato comunicati, mentre una webcam segue giorno dopo giorno la loro protesta (www.nonsparateallaricerca.org). Dentro al tendone che campeggia sul tetto hanno addobbato anche un piccolo albero di natale, anzi due, a quello classico ne hanno affiancato uno precario. Hanno raccolto la solidarietà del quartiere, ma non una parola da parte del ministero dell’ambiente di cui l’Ispra costituisce il supporto tecnico scientifico.
Anche questa è l’Italia. Un paese con 8 mila chilometri di coste che butta alle ortiche la ricerca sul mare (e non solo quella naturalmente). Un paese dove l’ente nazionale per la ricerca ambientale – l’Ispra appunto – viene costituito per decreto dal ministero dell’economia (mediante l’accorpamento, nel luglio 2008, di 3 enti preesistenti) e dopo un anno e mezzo è ancora commissariato e sprovvisto di uno statuto. Un paese dove tecnici e ricercatori sono costretti a salire su un tetto per farsi sentire.
Il tetto di via Casalotti è quello che sovrasta la vecchia sede dell’Icram, l’istituto per la ricerca sul mare che dal 2008 è parte dell’Ispra. I corridoi che si dipananano in mezzo ai laboratori sono deserti, e sono appena le sei del pomeriggio. Deserti i laboratori. Manca la corrente elettrica in alcuni punti, non c’è carta e mancano persino penne e pennarelli.
Nonostante lo stato di abbandono, è di qui che sono partiti alcuni ricercatori per raggiungere la Mareoceano, mentre al largo di Cetraro erano in corso le verifiche sulla nave dei veleni. Di qui sono partite nel 2006 anche una decina di ricercatori alla volta del Libano, in seguito al bombardamento di una centrale termoelettrica. Sono i ricercatori dell’Icram che elaborano, per gli enti locali, i modelli previsionali sulle coste della nostra penisola e partecipano ai tavoli ministeriali dove si decide come recepire le direttive europee. Sono loro che redigono i progetti di bonifica di diverse aree del paese (Priolo e Porto Marghera) e che seguono il monitoraggio di alcune attività industriali (piattaforme petrolifere e rigassificatori). Che forniscono i dati sulla pesca sostenibile e sulla maricoltura. Che studiano le mucillaggini e, tra gli ultimi progetti in ambito Nato, l’impatto degli ordigni bellici sui fondali marini al largo di Bari e Molfetta.
«Carta straccia, evidentemente», dicono dal tetto. Da un anno e mezzo, il declino pare irreversibile. Inaugurato da una «razionalizzazione» che ha avuto solo l’effetto di un’«iperburocratizzazione» delle procedure amministrative. Poi con la progressiva espulsione dei precari, che a bocce ferme, e cioè all’atto di costituzione dell’Ispra erano ben 618. Entro gennaio arriveranno a scadenza 200 contratti e senza interventi il numero dei ricercatori espulsi salirà a 450. Per questo nei laboratori di via Casalotti è in corso una desertificazione. Le postazioni sono vuote e le poche persone che si vedono in giro sono intente alla compilazione di bandi di ricerca presso altri istituti, in altri paesi.
Ma non si tratta di un problema economico. «Abbiamo già firmato convenzioni che permettono la copertura dei nostri contratti», spiegano. Nel dettaglio lo spiega un dossier elaborato dal sindacato Rdb. Dalla sua costituzione, l’Ispra ha visto una riduzione di risorse del 20% e ciò nonostante vanta, per il 2010, un bilancio previsionale di 126 milioni di euro a fronte di un contributo di 86 milioni. Stesso discorso per l’Icram, che nonostante un contributo ordinario di 6 milioni, era in grado di attrarre 40 milioni di euro di finanziamenti pubblici e privati. È per questo che i ricercatori chiedono, oltre alla riorganizzazione amministrativa che consenta all’istituto di riprendere le attività, anche il riconoscimento del lavoro subordinato e l’inserimento in pianta organica. «I soldi ci sono», E allora perchè buttare alle ortiche un tale patrimonio?
L’intenzione sembra quella di mettere fuori i precari e esternalizzare l’attività di ricerca. A infittire i sospetti, alcuni mesi, l’affidamento di alcuni incarichi di pertinenza Icram alla Sogesid, agenzia in house del ministero, nel cui consiglio di amministrazione siedono uomini della segreteria tecnica della ministra e il cui presidente è Vincenzo Assenza, è concittadino di Stefania Prestigiacomo. Mentre l’Ispra licenziava, la Sogesid assumeva personale. «Ma la ricerca e i controlli ambientali devono restare pubblici – è il messaggio che risuona dal tetto di via Casalotti – Se elimini chi fa i controlli, chi resta a farli: la fabbrica che inquina?».

Luca Tornatore Libero ! Il ricercatore italiano è ancora nel carcere di Copenhagen.

22 / 12 / 2009

“Ciascuno trascorre il Natale come può. Chi nella calma piatta degli affetti familiari; chi, coraggiosamente, vi si sottrae, magari in beata solitudine (sola beatitudine); chi, ancora, in situazioni e opere caritative, solidaristiche, e ha tutta la mia ammirazione. Ma c’è chi, davvero, come il bimbo di questa splendida favola, il Natale lo passa “al freddo e al gelo”, magari in un treno delle efficientissima rete di Trenitalia (che ha appena segnato altri punti nel suo grottesco palmarès), o su una panchina di una stazione ferroviaria, ammesso sia così fortunato da trovarne una di quelle “vecchie”, sulle quali era possibile sdraiarsi.

Già, perché oggi, nella società brutale e odiosa che stiamo costruendo, il diritto all’universale ospitalità teorizzata da un signore di nome Immanuel Kant alla fine del XVIII secolo si è rovesciato in una pratica del “respingimento” che va dalle navi guardiacostiere che girano per avvistare i barconi dei disperati e respingerli lontano dalle nostre coste, ai famigerati Centri di Identificazione e di Espulsione; e giunge sino, appunto, alle panche dei giardini o delle stazioni, che vengono ora via via sostituite da “nuovi modelli”, nei quali la panca lunga circa due metri, e larga 40-60 centimetri, viene sezionata da sbarre perpendicolari al suo asse, sì da trasformare un possibile eventuale giaciglio di fortuna, in tre o quattro seggiole, nelle quali può accomodarsi (si fa per dire) una persona, seduta, purché sia di piccola stazza.

Tutto questo – che ha pure dei costi non irrilevanti sul piano meramente economico – al solo scopo di evitare che qualche disgraziato, “ovviamente” straniero, “ovviamente” extracomunitario, islamico o nero, o comunitario pro forma (rumeno, slavo…), approfitti di quel “letto” e vi trovi riposo. Non sia mai! Ecco la civiltà giudaico-cristiana materializzarsi: fuori i barbari!
Insomma, anche questo Natale giunge sotto le insegne scritte ormai col sangue sulle bandiere della nostra patria: respingere, espellere, scacciare, identificare, perseguitare, criminalizzare, imprigionare, condannare, licenziare, umiliare…

E mentre le nostre autorità – le italiane in primissima fila, pronte a farsi spesso e volentieri riprovare dagli organismi comunitari – si impegnano in questa guerra persa in partenza (perché nessuna politica di contenimento o di respingimento ha mai potuto fermare i flussi migratori, una costante della vicenda umana, dalla Preistoria ad oggi), e annunciano “grandi opere” impossibili e/o inutili, quando non addirittura dannose (vedi la grottesca prima pietra del Ponte sullo Stretto), i grandi, autentici problemi vengono lasciati incancrenire.

A cominciare dal problema ambientale, il problema dei problemi, sul quale il recentissimo vertice di Copenhagen ha registrato un quasi fallimento totale. E i giovani e meno giovani coraggiosi e disinteressati che, al di fuori delle ben riscaldate stanze dove si svolgevano i sontuosi riti degli incontri fra i capi di Stato e di governo, dimostravano per richiamarli ai doveri verso la Terra, e la specie umana, prima che verso i singoli popoli, sono stati criminalizzati, combattuti, arrestati, malmenati, ingiuriati. La corrispondenza, gli sms, gli mms, le email, le telefonate, da Copenhagen sono state impressionanti. E molti di questi ragazzi e ragazze, di questi nuovi partigiani per il bene dell’umanità, giacciono tuttora in carcere come delinquenti comuni.

Tra loro un ricercatore italiano, un astrofisico, che lavora presso l’Osservatorio Astronomico di Trieste, Luca Tornatore, che ha all’attivo numerose pubblicazioni a livello internazionale: Luca (che non conoscevo neppure di nome, prima di ora, e che non ho mai incontrato), ha compiuto ieri il suo 38° compleanno in carcere, dove gli viene imposto un regime da mafioso. Nella gentile terra di Andersen e di Kierkegaard. Limitazioni delle comunicazioni, vessazioni, e probabile, annunciata condanna. Il popolo del web si sta mobilitando. E a lui vorrei far giungere un messaggio di ringraziamento: Luca è la nostra cattiva coscienza. La mia senz’altro, che a Copenhagen non c’ero.

Luca rischia di trascorrere il suo natale al freddo e al gelo: magari in una cella riscaldata, ma al freddo e al gelo procuratogli da una società – quella del turbocapitalismo predatorio e cinico – che criminalizza chi ricorda che la politica è l’arte di guardare lontano, e che i governanti dovrebbero innanzi tutto rinunciare alla logica del condominio, che è quella per cui ciascuno cerca di fare gli interessi propri a spese dell’interesse di tutti gli altri, a spese dell’intero condominio. La politica deve essere prospettica, e calcolare il rapporto tra costi e benefici di ogni azione messa in campo non solo sul breve, ma sul medio, sul lungo e sul lunghissimo periodo. Proprio l’assenza della dimensione prospettica di medio-lungo termine ha consentito il saccheggio delle risorse della Terra, ha permesso ai padroni del mondo di alterare il clima, di aprire uno scenario inedito da fine del mondo imminente, e di consumare il consumabile e ora di pretendere da chi finora nulla ha avuto, di rinunciare.

Insomma, anche sul piano della sostenibilità ambientale, il mondo è diviso tra chi ha tutto e vuole tenerselo ben stretto e chi non ha nulla e vorrebbe almeno avere qualcosa. Gli uni e gli altri, tuttavia, sotto questo riguardo, appaiono ugualmente ciechi. E tutti danzano sottocoperta, nelle sale del Titanic avviato verso l’iceberg che lo schianterà. Luca Tornatore e i tanti suoi compagni di battaglia, di tanti Paesi (pur nell’inquinamento inevitabile di mestatori violenti), volevano e vogliono solo, in modo pulito e pacifico, ricordare la situazione precatastrofica in cui ci troviamo. E metterci in guardia. E sollecitare i potenti ad agire prima che l’iceberg ci distrugga.

I potenti sono tornati alle loro dimore regali, ai palazzi presidenziali, alle piazze mediatiche. E Luca è in galera. Tocca a tutti noi dirgli grazie, intanto, mentre ciascuno dovrebbe fare propria la bandiera della sopravvivenza della Terra e della specie umana che è stata tenuta alta a Copenhagen, non da un pugno di statisti cinici che si credono astuti, ma da qualche centinaio di persone come Luca Tornatore, di cui dobbiamo pretendere l’immediata scarcerazione.

Morire a Natale in un CIE cie lager di stato

da Lombardia.indymedia.org

Mentre milioni d’italiani banchettano allegramente, nel caldo tepore delle proprie case o nell’opulenza dei ristoranti di turno,migliaia di persone festeggiano nel gelo delle galere oppure in quei campi di concentramento che si chiamano CIE.
A Corelli una trans bloccata domenica perchè senza documenti si è impiccata, per uccidersi ha usato un lenzuolo, fissato alle sbarre della finestra della sua stanza.
Era stata catturata cinque giorni fa e, dai racconti che siamo riusciti a raccogliere fino ad adesso, prima di uccidersi avrebbe chiesto, senza essere ascoltata, di essere trasferita in un’altra sezione.
Successivamente un viado amico della defunta ha minacciato di togliersi la vita a sua volta, la risposta è stata la solita, psichiatrizzazione e letto di contenzione, in questo momento si trova all’ospedale Niguarda, non certo per essere “curato”.
Puntuali e con il consueto rispetto per la dignità umana giungono le dichiarazioni di De Corato e leghisti vari che, non contenti di fottersene, fra un brindisi e una fetta di panettone pensano bene di ribadire l assoluta utilità dei CIE nel contesto del contrasto alla terribile piaga della prostiuzione.
Per la serie, se anche ci scappa il morto, tanto di guadagnato.
Non è la prima volta che questo accade ne sarà, realisticamente l ultima, non finchè si spendera piu energia nel difendere queste macchine di morte che per raccontare le storie di coloro che ne vengono stritolati.
Questo suicidio è il secondo che avviene in un Cie dall’inizio dell’anno, oltre ad un decesso per “causa da accertare” nel Cie di Roma. Nel 2008 nei Cie si sono registrati due morti per malattia, mentre nel 2007 altri 3 suicidi (di cui 2, nel Cie di Modena, a distanza di un solo giorno l’uno dall’altro).
Auguri.