12/10 Riprendiamoci ciò che è nostro! – assemblea pubblica

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Strumenti di lotta per resistere al ricatto del debito e immaginare nuovi possibili.

Con Blocco sociale Antisfratto – Viareggio
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Ri-Maflow – fabbrica recuperata di Milano

e altri ospiti

Si conta che dagli anni ’80 ad oggi, la dismissione dell’apparato pubblico abbia fruttato 157 miliardi di euro.

La svendita di servizi e patrimoni, pur non eliminando l’ inefficienza e il clientelismo di cui era accusato “il pubblico”, rimane la principale ricetta per far ripartire la crescita.

Nel mentre noi ci troviamo senza servizi, migliaia di licenziati e un debito illegittimo, gonfiato, anche, da queste operazioni finanziarie di vendita.

Nel percorso verso la mobilitazione generale di ottobre, animata da sindacati di base, comitati ambientalisti, lotte territoriali e reti precarie, La Boje! propone tre giorni di lotta e appuntamenti che provino a ragionare su una ripresa diretta di ciò che è nostro e ci viene tolto dai piani di austerità.

Quest’estate, sul monte Amiata, luogo emblematico perché colpito dall’inquinamento geotermico di Enel, numerosi comitati ambientali da tutta Italia di cui condividiamo le istanze si sono incontrati per produrre una risposta comune a come i profitti stanno attaccando i territori, e con essi la qualità della vita. In quell’occasione é stata lanciata mobilitazione del 12 ottobre, data che vuole ricordare l’inizio della colonizzazione delle Americhe.

In questo momento in Europa, con la scusa della crisi, invece di ammettere che il sistema capitalista produce ingiustizie e monopoli, si stanno “colonizzando” in modo intensificato tutti quegli ambiti della società, che le lotte del passato avevano posto quali “accessibili a tutti”.

I molti NO che nei territori hanno prodotto forme di auto-organizzazione delle popolazioni, in mancanza dell’alta politica impegnata a timbrare le lettere dalle banche centrali, si sono sviluppati verso ambiti di auto-politica che hanno proposto la democrazia diretta e la gestione dal basso dei beni collettivi.

Inoltre queste esperienze hanno provato anche a ribaltare la narrazione che il potere fa di come è composta la società della crisi.

Il mito di un progresso per pochi ti porta a giustificare la distruzione della tua terra, per esempio. La “speranza nel trovare un lavoro” è uno strumento di pacificazione che divide la massa di sfruttati tra arrivisti e sfigati.

La criminalizzazione delle lotte è un dispositivo scenico per far calare l’empatia tra chi soffre e chi protesta.

Raccontare la società prendendo la parte di chi si ribella, è indispensabile per contrastare il bombardamento mediatico, per riprendere un proprio senso di occupazioni, sabotaggi e manifestazioni, quali strumenti di lotta.

Difesa dei territori, diritto alla casa e lotta alla precarietà e alla disoccupazione potrebbero sembrare tematiche sconnesse e così il sistema vorrebbe che le intendessimo.

Riprendendo la campagna contro la cementificazione “Nel mio quartiere basta cemento, Partecipazione al 100%” vediamo come il contesto urbano sia sempre più una cartina tornasole della crisi economica e di come questa stia cambiando il mondo.

Nello spazio cittadino di Mantova si cristallizzano le relazioni di potere che lo governano: la marginalizzazione dei poveri nelle aree periferiche, la cementificazione dei terreni agricoli, il controllo del costi dell’ accesso alla casa e la definizione dello spazio pubblico con pubblicità e ipermercati monopolizzanti.

Chi non accede alla cittadinanza, chi rimane fuori dal gioco della produttività si deve nascondere, nelle vie meno illuminate, e dorme negli edifici abbandonati o in costruzione.

Girando per i quartieri e le vie, anche nel centro, emergono però anche possibili resistenze del sistema e le falle di questo da attaccare.

Le vetrine del centro vuote non ci parlano solo degli affitti cari o del calo dei consumi, ma anche dello spostamento dell’aggregazione e della socialità negli spazi privati del centro commerciale.

I nostri centri cittadini non sono solo “storici” o “commerciali”, ma devono essere anche sociali e politici.

Luoghi di discussione ed espressione del conflitto.

Allo stesso modo, per recuperare un po’ di fondi pubblici, tagliati dalle revisioni di spesa del Fiscal Compact, viene svenduto dai comuni il patrimonio demaniale, nonostante la necessità di spazi e servizi per la comunità.

Ripartire dall’interesse di tutti per contrastare un sistema governato dal profitto per pochi.

Un enorme numero di giovani precari, senza nessun riferimento politico o sindacale, cresce in periferie alla ricerca di identità, tra un “centro-vetrina” e una zona industriale in via di smantellamento.

Questo settore sociale ha animato le rivolte che hanno infiammato l’Europa, il mondo arabo e il medio-oriente, fino alle americhe.

La forma centrale di organizzazione di piazza Tahrir, come della Casbah di Tunisi, di Zuccoti Park a New York, piuttosto che piazza Taksim, è la condivisione di uno spazio pubblico, che diventa “centro della lotta” assumendo identità.

Le zone produttive sono costellate da capannoni vuoti, segno di una produzione che si sta spostando altrove.

Non si tratta di inseguire le burocrazie sindacali o le promesse di confindustria, aspettando qualche ammortizzatore sociale o “un padrone più buono”, ma di riprendersi del lavoro.

Dobbiamo uscire dal gioco costruito dagli accordi tra CGIL, CISL e UIL con Confindustria ( l’accordo del 31 maggio è solo l’ultimo) che ha immobilizzato la rabbia operaia con le casse integrazioni.

Dobbiamo provare ad immaginare delle soluzioni che uniscano i licenziati ai precari, che mettano al centro una riappropriazione del lavoro.
Il lavoro non è neutro, toglie umanità all’uomo e inquina il territorio, scappando appena l’ambiente presenta il conto.

Con l’esperienza Ri-Maflow, fabbrica autogestita di Milano, vedremo come una lotta in difesa del posto di lavoro possa trasformarsi in una lotta per un nuovo tipo di lavoro.

Lo spazio pubblico condiviso, il territorio che si auto-organizza per difendersi dalle speculazioni e si autogestisce per recuperare quei “rami secchi” che al capitale non servono più, ci sembrano punti di partenza per cominciare a ridefinire le possibilità di cambiamento.

La sinistra non può esistere nel quadro della contrattazione, della “comprensione delle difficoltà”, delle stabilità parlamentari.

Partire dagli strumenti con cui incominciare a “mangiare i ricchi”, o quantomeno farli un po’ soffrire, e creare reti di solidarietà che fermino le ricadute dei diktat della TROIKA (Banca centrale europea, Fondo Monetario Internazionale e Unione Europea), ci sembra il modo più utile per produrre ricomposizioni politiche sociali utili al cambiamento dell’attuale stato di cose.