Il PrimoMaggio tra “non più” e “non ancora”

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a cura di LaBoje! – collettivo anticapitalista

Vorremmo aprire con questo articolo una riflessione su questo primo maggio e sulle strategie che i precari dei grandi centri della logistica e del consumo possono mettere in campo per incepparne i meccanismi.

Quest’anno noi del collettivo La Boje! abbiamo deciso di concentrarci sulla costruzione locale della MayDay milanese, che da anni prova a mobilitare migliaia di precari attorno alla rivendicazione di un reddito garantito e alla performance della parata.

EuroMayDay da più di dieci anni, pur con diversi rivoli e tempi di produzione teorica, riunisce quell’anima dell’opposizione sociale che non può chiedere “più lavoro”, come fanno i sindacati confederali, ma anzi rivendica forme continuative e garantite di reddito.

Negli ultimi due anni in occasione del primo maggio abbiamo partecipato ai presidi davanti i grandi esercizi commerciali, rendendo possibili, i “rallentamenti del consumo” di fronte alla città della moda (poco efficace) e all’oviesse (molto efficace). Aggiungiamo anche che l’anno scorso eravamo presenti al pranzo solidale della Burgo.

Pur non avendo partecipato al presidio, non siamo contrari alla campagna di subvertising e solidarietà organizzata in contrasto all’evento musicale del primo maggio all’outlet “fashion district” di Bagnolo San Vito.

Al contempo sottolineiamo che la collocazione e l’artificialità del fashion district, che rappresenta un centro storico finto (con tanto di portici) e privatizzato dove fare acquisti, aggiunge l’ elemento strategico della maggiore difficoltà di impedire il consumo lì piuttosto che nel centro di Mantova.

Tuttavia abbiamo ritenuto più opportuno in questo primo maggio partecipare alla Mayday e ai successivi giorni di confronto e workshop, nell’ambito dell’occupazione temporanea the #ned (no Expo days), anche in continuità con l’esperienza di Share-spazio condiviso, alla quale abbiamo dato vita nello scorso ottobre con tre giorni di incontri, presentazioni di libri e momenti di socialità e attraverso la quale abbiamo rivendicato la necessità di condividere spazi per sottrarsi all’alienazione lavorativa, alla commercializzazione del tempo libero e delle relazioni umane e alla cementificazione dei quartieri in cui viviamo, processo analogo a quello che sta accadendo su grande scala a Milano in occasione di Expo.

Partecipare a questi tre giorni di workshop è stato utile poiché il tema della precarietà, o peggio della gratuità della prestazione lavorativa, si lega con la speculazione edilizia stimolata da Expo (che si avvarrà di 18mila volontari/stagisti non pagati, grazie all’accordo firmato da Comune di Milano, CGIL-CISL-UIL e Expo spa).

Certo la lotta a Expo2015 apre diversi fronti di lotta, per la sua natura allo stesso tempo pubblicitaria e materiale, dai tentativi di pinkwashing dello spazio urbano (http://www.communianet.org/content/che-genere-di-expo), alle ingerenze nella libera circolazione dei saperi, ma l’aspetto che ci è parso peculiare, poiché intersezione tra lotte in difesa del territorio e del lavoro, è la definizione degli spazi urbani che le persone vivono.

Il ragionamento parte da una riflessione su cui ci confrontiamo da mesi: se la classe operaia fordista è in via di estinzione, non diventa il territorio, caratterizzato da una distribuzione diseguale di risorse, quel comune denominatore che sollecita processi di consapevolezza comune tra una massa di persone?
Come si può dare una coscienza di classe in assenza di quel legame tra il lavoro e la definizione di un’identità sociale? Difficile identificarsi in occupazioni flessibili dominate da relazione competitive tra colleghi. Arduo riconoscersi nella stessa situazione di chi ha (o meglio aveva) protezioni sindacali, concertazioni tra le parti sui contratti nazionali e ammortizzatori sociali.

Le scelte dei governi italiani degli ultimi 25 anni di indirizzare la flessibilità del lavoro, richiesta dai rischi del mercato mondiale e dalle dottrine neo-liberiste, unicamente contro giovani, donne e poco qualificati, ha prodotto una frattura tra la nuova manodopera precaria e quella indeterminata.
Le fasce più deboli sono state messe in competizione, con il risultato che non si è riusciti a produrre nessuna mobilitazione comune, nemmeno durante la crisi, tra garantiti e non garantiti.
Ne usciamo con una riduzione consistente del peso della classe operaia classica che, nonostante la forte sindacalizzazione in alcuni settori produttivi, non è riuscita a legare le vertenze contro le chiusure delle fabbriche a parole d’ordine che muovessero tutti.

Non per niente chi è riuscito a resistere in questi anni, l’ha fatto creando piattaforme sociali che portassero un insieme di critiche e proposte più radicale e generale della mera richiesta di lavoro.
Come dire che il semplice “ritorno al passato” non significa nulla per chi, precario da qualche anno, quel sistema di tutele e diritti non l’ha mai percepito.
O peggio veniva considerato una “variabile strutturale”, a protezione dei lavoratori indeterminati, dagli stessi sindacati nelle fabbriche.

Il primo maggio a Suzzara, in piazza, gli stessi sindacati confederali chiedevano “lavoro”.
E il lavoro ce lo daranno, un bel lavoro di merda, con un salario di merda e nessuna possibilità di costruire un proprio futuro.

Sull’altro versante, infatti assistiamo all’accelerazione del job act, che fornisce maggiori possibilità ai padroni di maneggiare la forza lavoro dei precari a loro piacimento.
Questo in un paese che ha i più bassi salari d’Europa, una disoccupazione giovanile intorno al 40% e la completa mancanza di forme serie, non diciamo di continuità di reddito, ma quantomeno di sussidio alla disoccupazione.

Tornando a quello che la Gazzetta di Mantova ha definito “sciopero flop” all’outlet ci sembra utile sottolineare un paio di aspetti.

In primo luogo non possiamo considerare più i sindacati confederali come degli agenti neutri nelle lotte che si danno. Le influenzano a monte, poiché le segreterie sono coinvolte sia a livello nazionale sui contratti, che a livello locale sulla stipulazione di accordi commerciali.

Le caratterizzano però anche a valle, intervenendo tardivamente, meccanicamente, senza alcuna conoscenza delle lotte nei grandi iper-mercati degli Stati Uniti ( un esempio http://www.connessioniprecarie.org/2013/08/30/the-thunders-gonna-come-salario-sindacato-e-terzo-sciopero-dei-fast-food-workers/ ), modellando la strategia di lotta dei lavoratori attorno alle consuetudini del lavoro dei delegati sindacali.

Peccato che non ci possa essere concertazione senza rapporti di forza favorevoli ai lavoratori, e questi non si creano con il presidio nostalgico del primo Maggio.
Non per niente spesso i lavoratori di questi settori esprimono immediatamente rivendicazioni molto più radicali dei sindacati. Che semmai hanno il ruolo di impantanare la discussione sul fatto se sia meglio aprire per pasqua o pasquetta.

Non abbiamo una soluzione precisa, ma una serie di immagini suggestive da proporre nel confronto con la sinistra plurale cittadina. Non vogliamo fare lezioncine, ma proporre dei temi di discussioni ai soggetti politico sociali con cui ci sono delle affinità.

I precari di questi centri spesso lavorano insieme solo per pochi mesi, ma al contempo la precarizzazione parziale e selettiva operante in Italia fa sì che molti continuino a ruotare intorno agli stessi ruoli (magari in un altro supermercato). Il cosiddetto entry level da cui non si esce più.
Servirebbe quindi un luogo o uno strumento flessibile e informale attraverso cui possano discutere e organizzarsi.

In secondo luogo il problema di questi lavori nei grossi centri del consumo interroga i tempi di vita in un senso doppio: se da un lato estende la prestazione lavorativa nelle ore e nei giorni festivi, dall’altro i precari non hanno un “living wage”, ovvero un salario che permetta loro di pianificare una vita, comprarsi una casa, avere dei figli etc.
Varrebbe la pena insistere su una rivendicazione qualitativa (per esempio quale salario è adatto ad una vita degna, non mercificata?) che metta in discussione la compressione del costo del lavoro, come soluzione per uscire dalla crisi.

Un reddito sociale (che non sia mero ammortizzatore) può essere una richiesta che libera tutti e fa interrogare tutti sul reale ruolo e valore del lavoro e sulle enormi disuguaglianze nell’accesso e nel controllo delle risorse.

L’ultima immagine è rispetto la strategia scelta: saranno dei sindacati poco presenti, a dover rincorrere le aperture fissate da fashion district con presidi solidali o piuttosto i lavoratori attivi quotidianamente a mettere in pratica forme di sabotaggio collettive durante i momenti di maggiore incasso e affluenza per i controllori privati del centro commerciale di Bagnolo?

Solo ragionando sulla composizione di classe e sui rapporti di forza che costruisce questa possiamo produrre convergenze di classe, altrimenti l’unione diventa di una sinistra culturale anti-consumista, non di classe.

Ripetiamo, non ci sembra negativo il presidio e le azioni solidali, ma per ribaltare la tavola pensiamo che valga la pena ragionare sulle direzioni da investigare e le energie da impiegare.

Aggiungiamo quindi l’ultimo elemento, ovvero i proletari (non sonnambuli) ad assistere al concerto di Arisa.
Non ce la possiamo prendere con questi, perché sono gli stessi che vorremmo aiutare a ribellarsi. Piuttosto andrebbe portato alle estreme conseguenze il ragionamento sulla delocalizzazione produttiva in Asia e nelle periferia Europea (a meno che non vogliate abbassarvi lo stipendio come in Polonia come proposto da Elettrolux).

Il cambiamento ha portato ad un aumento del lavoro nei servizi (in diversi casi fittizio, ma comunque labour intensive) e al passaggio dalla centralità della produzione, a quella del consumo e della distribuzioni di merci. Non per niente l’amministrazione Obama spinge sulla ratifica del TTIP ovvero la costituzione di un spazio unico per il commercio e il libero scambio tra Europa e Usa, che agevolerà le multinazionali a spese delle popolazioni.

Il capitalismo per affermarsi ha bisogno di convincere, e non esiste società dei consumi senza la diffusione di comportamenti sociali indirizzati al consumo.
Ci fa schifo pure a noi il consumismo, ma non possiamo semplicemente disprezzare questi comportamenti sociali egemonici.
Infatti questi modelli di diffusione del consumo nel tempo e nello spazio, a ben vedere, non sono feticci del sistema, ma aspetti vitali per la riproduzione di quest’ultimo.

Individuarne le debolezze e i punti di volta di questa forma di capitalismo (pur ricordando che nelle zone produttive del pianeta i nostri compagni conducono intense lotte come in Cina e Bangladesh) non sarà sicuramente un passaggio immediato o una fase priva di aspri contrasti, ma il passaggio verso una nuova coscienza di classe passa per sentieri molto pericolosi.