LA CGIL E L’IDEOLOGIA DEL DECLINO INDUSTRIALE

Si potrebbe anche discutere sull’impostazione d’analisi -curioso che sia fuori

discussione che la centralità della ricerca in Cgil è sulla stabilità delle

imprese e non su quella della forza-lavoro e che quest’ultima sia citata solo

come capacità di consumo- ma è sulla prognosi che l’impostazione ideologica

scivola fuori come nei migliori parti spontanei.

Per impostazione ideologica intendiamo la coazione a ripetere i principi di

fondo che regolano il proprio agire e il proprio impianto cognitivo in assenza

di riscontri empirici e di categorie di lettura adeguate. Di fronte all’analisi

del declino industriale, la proposta Cgil di una politica degli investimenti che

favorisca l’allargamento delle dimensioni delle imprese italiane -su scala

distrettuale, nazionale e internazionale- accompagnata alla ripresa delle

politiche di concertazione è semplicemente coazione a ripetere dell’ideologia

industrialista. E si tratta dell’ideologia del “più impresa più benessere” che è

persino un arretramento rispetto ai tempi in cui il labaro Cgil era tenuto dal

gerarca della prima ora Lama Luciano nei quali la retorica ufficiale teneva

perlomeno conto del ruolo della forza lavoro organizzata a garanzia di una

parziale redistribuzione della ricchezza prodotta.

E qui si vede come, a dispetto dell’industrialismo vantato, sia invece

l’ideologia postindustrialista a contribuire a formare analisi e prognosi del

sindacato: scompare una visione complessiva della forza-lavoro come è e come

deve essere (e questa scomparsa è un tratto tipico di ogni ideologia del lavoro

postsindacale) per fare spazio alla circolarità del rapporto crescita della

grande industria-investimento sulla ricerca-aumento della ricchezza complessiva.

A questo va aggiunta una sorprendente (per alcuni) ideologia nazionalista: fatto

l’Euro il sindacato non spinge nè per l’Europa politica nè per l’unione tra

confederazioni sindacali per un accordo continentale sul dumping salariale. Al

contrario si spende pubblicamente per una politica di lobbying a Bruxelles per

sottrarre risorse e investimenti destinati altrove (mettendo contro tra di loro,

come Epifani testualmente fa, i lavoratori di Germania, Italia, Francia sulla

questione acciaio). Se si toglie qualche accento solidaristico, Mario Monti non

avrebbe potuto dire di meglio: il sindacato contribuisce alla competitività

(dogma indiscutibile ) del sistema paese e invece di cercare politiche di

protezione e unificazione della forza lavoro si ingegna per rilanciare il

capitale della propria area regionale vista in concorrenza con le altre..c’è una

Authority europea sulla concorrenza per questo, nel caso non funzioni pare

quindi che ci pensi il sindacato.

Visto poi che gli effetti delle politiche attuali vengono lette in termini di

effetti sul consumo (non sia mai che si mette in discussione anche questa

categoria) piuttosto che sulla capacità di organizzazione contrattuale del

lavoro (problema liquidato anche a livello retorico) c’è da chiedersi se alla

Cgil si siano resi conto se ci sia un rapporto tra 10 anni di concertazione e i

minacciati livelli di riproduzione di un terzo delle famiglie italiane (come da

denuncia Cgil). Ovvero se ci sia un rapporto tra i tagli salariali imposti de

facto per un decennio con la forbice inflazione reale-inflazione programmata e

questo impoverimento reale. Evidentemente no, visto che la concertazione per lo

sviluppo industriale è la proposta Cgil, coazione a ripetere delle politiche del

’93 riproposte con il nuovo (quello si) dispositivo retorico della denuncia del

declino.

Insomma, persa l’occasione storica di denunciare un modello industrialista,

energivoro, socialmente entropico (tutti temi che al massimo nutrono il piccolo,

voracissimo e rissosissimo ceto politico dei verdi), dissoltosi come neve al

sole il movimento new global (che comunque con la Cgil al massimo ci ha cercato

la concertazione ), restano sul piatto proposte di una piattezza e di una

pericolosità sociale sconcertanti. Se consideriamo che queste politiche sociali

si accoppiano alla fragorosa novità della proposta della candidatura di Prodi

per il 2006 vediamo come il centro-sinistra sia fermo a una decina di anni fa:

blairismo confederalmente compatibile e appoggio un pò random di Rifondazione.

Un quadro politico decisamente ingessato, specie considerando le premesse, e le

sparate, del movimento che si autodefiniva globale

mcsilvan

da Rekombinant


Leggendo i report sulla conferenza stampa delle Cgil, alla quale dà ampio risalto Repubblica di ieri, si ha l’impressione del classico esempio di come robusti e ponderati studi si sposano con una impostazione profondamente ideologica. Accompagnata dal successo -scientifico e di pubblico- del libretto di Gallino, preceduto a sua volta dalle prognosi sul “declino” del primissimo periodo della

segreteria Epifani, la prognosi Cgil sul tramonto del sistema industriale italiano sembrerebbe trovare un oggettivo riscontro specie nel caso Parmalat dove l’espansione dell’impresa -di fronte a difficoltà sistemiche sul piano industriale- è naufragata nel vortice della finanza creativa che è pure quel fenomeno di voodoo monetario che tiene in vita i quattro maggiori gruppi del paese.